Prendersi cura della terra per prendersi cura delle persone; prendersi cura delle persone per prendersi cura dei territori. Si riassume così la mission di “Al di là dei sogni”, cooperativa che opera tra Campania e Lazio, all’interno dell’Ente Parco Regionale Roccamonfina-Foce del Garigliano. Siamo a Maiano di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, all’interno di un bene confiscato intitolato ad Alberto Varone, vittima innocente della camorra, affidato alla cooperativa nel 2004. Dedita alla coltivazione di ortaggi – sui suoi 17 ettari di terreno – e alla loro trasformazione, “Al di là dei sogni” è una realtà cooperativa dal forte valore sociale, che favorisce l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, come ci ha raccontato il suo Presidente Simmaco Perillo.
Eravamo un gruppo di ragazzi provenienti dal volontariato e lavoravamo con minori a rischio, cui volevamo offrire un modello di vita diverso da quello che avevano sperimentato. Come obiettore di coscienza in una comunità di tossicodipendenti, imparai che dietro al servizio c’è un’impresa. E quel modello economico mi affascinava molto: poteva rappresentare l’evoluzione di quello che stavamo facendo. Abbiamo quindi costituito una cooperativa con una comunità di tipo familiare per prenderci cura di minori allontanati dal nucleo familiare, ma non sapevamo come aiutarli una volta maggiorenni. Nel frattempo avevamo iniziato a lavorare anche con la salute mentale e con la tossicodipendenza: chi avrebbe dato lavoro a queste persone? Quando non si accede al mercato del lavoro, ti viene in qualche modo sottratta la dignità. A maggior ragione a Caserta, provincia con un alto tasso di disoccupazione: pensammo che, se volevamo offrire lavoro, dovevamo crearlo noi.
In campagna, a contatto con la terra, si recupera la relazione con il creato: tutti noi veniamo da famiglie contadine e questa zona ancora oggi fonda il suo prodotto interno lordo sull’agricoltura. La difficoltà, semmai, era trovare un terreno: cosa complicatissima per una piccola cooperativa come la nostra. Ero molto scoraggiato finché un mio compagno di scuola che non vedevo da tempo mi ha parlato dei beni confiscati alla camorra, dei quali non avevo mai sentito parlare…
Sì, perché in quegli anni, qui, di camorra non si parlava. Scoprii solo allora che si trattava di terreni, case, immobili, che potevano essere dati in comodato d’uso gratuito a cooperative come la nostra. La mia proposta destò non poche perplessità tra i soci, ma li convinsi: se mai ci proviamo, mai possiamo lamentarci. Scrissi un progetto, con poca convinzione, e appresi con sorpresa dopo un paio di mesi che il bene ci era stato affidato. Non sapevo però che nessuno finora ne aveva mai fatto richiesta e che questo non era il solo bene confiscato ma ce n’erano 24 solo nella nostra provincia. Noi eravamo la prima esperienza di utilizzo sociale di un bene confiscato.
Dopo la consegna delle chiavi, il 29 dicembre 2008, il 16 gennaio individui sconosciuti hanno fatto irruzione nell’edificio appena ristrutturato, scoperchiando tombini, tranciando i cavi della corrente elettrica, distruggendo porte e finestre nonché i raccordi dell’impianto idraulico.
La tentazione di fare marcia indietro è stata forte, ma nel frattempo avevamo iniziato a collaborare con l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, che ci aveva affidato alcune persone per iniziare un percorso di riabilitazione attraverso il lavoro: a Capodanno avevamo festeggiato la consegna delle chiavi, ora come potevo dire loro che non c’era più niente? Spinto dalla rabbia, ho preso il sacco a pelo e mi sono stabilito qui: già dalla prima sera eravamo in quaranta… che paura volevi avere?
Come recita la targa nel nostro ingresso: “Al di là di ogni sogno ci deve essere per forza una realtà sognata”. Terminati i lavori, non riuscivamo a ottenere l’agibilità. Così, insieme a Libera e al Comitato Don Peppe Diana, ci siamo inventati un Festival Nazionale dell’impegno civile durante il quale mi denunciai come irregolare davanti a più di 1000 persone: la cosa ebbe un clamore esagerato. E 15 giorni dopo arrivò anche l’agibilità. Compresi allora che si può fare, anche se forse nella mia terra ci vuole un po’ di fantasia, e che se un sogno, da solo, è un’utopia, condiviso diventa realtà. Avevamo bisogno di creare lavoro e abbiamo costruito un modello economico, sociale e culturale come antidoto a quello proposto dalle mafie.
Noi abbiamo scelto un bene confiscato proprio con l’idea di fare biologico e il primo passo è stato capire se su questo terreno erano stati interrati rifiuti e se c’erano rifiuti tossici. Oltre al monitoraggio dei terreni compiuto dalla Regione Campania, abbiamo fatto fare anche delle analisi private. Dopodiché, ottenuta la conferma della buona qualità dei nostri terreni, abbiamo iniziato a coltivare direttamente con il biologico, confermando l’idea che si può fare, che si possono curare le persone e intanto curare la terra, prendendoci cura del territorio: è un circolo virtuoso.
Siamo partiti dai sottòli che esaltano le caratteristiche delle ricette tipiche della tradizione mediterranea e in particolare della nostra regione, come peperoncino e origano, aromi tipici della Campania. Sono ricette perfezionate nel tempo, aggiungendo per esempio l’olio extravergine d’oliva. Abbiamo scelto zucca, zucchine, melanzane, broccolo tipico campano, i friarielli… e la papaccella napoletana, conservata in agrodolce: al momento siamo gli unici ad averla biologica e l’abbiamo custodita a partire dal seme. Richiede una macerazione più lunga, un accurato sgocciolamento e un invasettamento per colori. È un procedimento lungo, ma il risultato ripaga.